Grazie papà: omaggio a Giovanni Ricciardi
Michele Ricciardi, Luca Ricciardi con Paolo Ricciardi
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

Molti hanno detto e scritto in questi giorni che papà ha lasciato un segno importante negli studi di letteratura brasiliana e portoghese, con testi che ancora vengono letti e facendo un lavoro - lungo una vita - di interviste a centinaia di autori del paese che tanto amava. Effettivamente da che ne abbiamo memoria papà ha sempre trafficato con i suoi registratori e le sue preziose cassette, dove incideva le tante conversazioni raccolte nei viaggi in Brasile, che poi sbobinava, rielaborava, e pubblicava, nel tentativo, incessante di costruire un metodo di ricerca che lui chiamava sociologia dell’autore o sociologia per la letteratura. 

Noi sapevamo e non sapevamo quello che faceva. Un po’ perché nessuno dei figli ha imparato il portoghese, un po’ perché i successi di un padre non possono essere presi troppo sul serio in famiglia, altrimenti si rischia poi si subirne troppo il peso. 
 
Non siamo in grado quindi di fare una biografia professionale di papà. Altri la potranno raccontare. Però c’è una sua possibile biografia, non ufficiale, che forse solo noi figli conosciamo. 
 
Papà è nato a San Giovanni Rotondo, sul Gargano, poco prima della guerra. Nonno mandato al fronte, ha rifiutato di sottomettersi al comando dei tedeschi dopo l’armistizio e dalla Grecia lo hanno mandato in un campo di prigionia in Germania. Per questo era stato insignito del distintivo di Volontario per la Libertà. Papà ne andava orgoglioso. Poi nonno ha lavorato in miniera, come guardiano, e nella sua campagna. Nonna a casa faceva calze di lana al telaio e cresceva i tre figli. 
 
La leggenda familiare vuole che Nannino, così lo chiamavano, sia stato toccato da padre Pio, che avrebbe anche detto qualcosa come “Nannino fatelo studiare”. è stato mandato in collegio dai  salesiani a 10 anni. E con loro è stato fino alla fine del liceo classico. Tornava a casa qualche volta per le vacanze. Di qui la sua attitudine monacale, austera, la sua capacità di raccoglimento, e la tipica espressione che ci ripeteva sempre da ragazzi: “temperanza”. Una specie di risposta ad ogni richiesta eccessiva dei figli. 
 
Poi in Brasile come seminarista. Lo prendevamo sommessamente in giro per questa carriera da prete mancato, ma per papà la religione era un fatto abbastanza serio e al tempo stesso intimo, personale. Ci diceva: anche se non credete in Dio, andate in chiesa qualche volta. È un modo per raccogliersi, riflettere, pensare lontano dal caos. E, per darci un altro punto di vista, ci parlava spesso della teologia della liberazione e della sua influenza nei processi di cambiamento del continente latinoamericano.  
 
È stato in giro per il Brasile per molti anni, dormendo sempre in piccole pensioni, venditore porta a porta di televisori, editore di una piccola guida tv, Fazendeiro per un mese, commerciante di scarpe all’occorrenza, e insegnante di francese. 
 
Per la buonanotte ci raccontava le favole: l’Iliade, l’Eneide, L’Odissea, L’Orlando Furioso e i Promessi Sposi. Ma anche La volpe e l’uva e le sue invenzioni: Ciccio ricotta pastore e l’Ochina. Poi certe sue avventure: quella di una partita di pallanuoto giocata in un fiume dell’Amazzonia tra lui e il suo socio in affari, ciascuno in coppia con il proprio cavallo che parava i tiri in porta con le lunghe zampe. Ci abbiamo creduto per molti anni. E poi quella di un attacco subito da un giaguaro, che gli ha lasciato una grande ferita sull’addome. La mostrava ai nipoti con orgoglio - ma in realtà era la cicatrice di un intervento chirurgico. 

Un’altra storia appartiene ad uno dei suoi tanti viaggi in autostop.  Da Barcellona a Lisbona viene aggredito, legato e derubato da due studenti olandesi che gli avevano dato un passaggio. Nello zaino ha il suo manoscritto ancora incompleto della biografia su Soeiro Pereira Gomes. I due gli portano via tutto ma il manoscritto glielo restituiscono con deferenza. Lo lasciano lì, legato, in campagna, lontano dalla strada principale. Riesce a spezzare le corde che gli tenevano i polsi strusciandole su una pietra. Poi raggiunge a piedi il primo bar sulla strada. Spiega cosa gli è accaduto. Chiama la polizia. Prende una cartolina, la affranca e la invia a casa. ci scrive soltanto: “Il viaggio prosegue magnificamente. Saluti e baci”. 
A Roma papà ha incontrato mamma, nel gruppo di sociologia di Ferrarotti che allora entrambi frequentavano. 
 
Entrambi insegnano e la scuola per loro è il centro pulsante di un rinnovamento democratico della società. Papà in particolare andava molto fiero di una ricerca sul lavoro minorile nel quartiere, fatta fare ai suoi alunni del biennio dell’istituto Volta, qui a Bravetta. Un bel lavoro pieno di dati e statistiche. Ma noi preferivamo sfogliare un altro lavoretto: un fotoromanzo sulla vita di una giovane coppia, fatto con i suoi alunni e realizzato dentro casa nostra. Ci piaceva vedere quei ragazzi vestiti da adulti fotografati anni prima nelle stanze dove vivevamo, con la vecchia carta da parati e i mobili che non c’erano più. 
 
Poi papà era molto orgoglioso di una bellissima antologia per il biennio. Anche quello un testo per una scuola utopica che, attraverso la letteratura, formava il cittadino e la coscienza civile. Dentro c’erano pure delle foto nostre che andavamo a cercare nel libro assieme alla dedica. 
 
Di quegli anni ci ricordiamo anche le lunghe sedute di lavoro dedicate ai libri di testo per la scuola, con mamma, con Lia, Gemma e Giulia; Poi le feste con gli amici, papà al piano, Alberto al violino, le cachaca e le feijoada con Marilda e Teresa Pinto, e i tanti scrittori e studiosi brasiliani e portoghesi che dormivano nel divano dello studio e che papà portava a visitare Roma. 
 
Papà era severo. Ma autorevole. Per sgridarci abbassava il tono della voce. E noi tremavamo. Era molto raro che urlasse. 
 
Andava a Bari a insegnare, all’università. Prendeva l’autobus per andare in stazione la mattina presto. Tornava qualche giorno dopo, la sera tardi, sempre con l’autobus. Quando arrivava si sedeva stanco sul divano. E poi il rito: qualcuno di noi prendeva le sue ciabatte in bagno e gliele portava, mentre lui scioglieva i lacci dei mocassini. 
 
Non prendeva mai un taxi. Come non andava quasi mai al ristorante, che riteneva una forma di lusso. Anche negli ultimi anni usava spesso l’autobus. Lo preferiva alla macchina. Uno dei pochi abitanti di Roma che non ho mai sentito lamentarsi dei mezzi pubblici.
 
Partiva spesso per andare in Brasile e ci stava tanto tempo. A volte un mese intero. A volte da solo. Nei viaggi più brevi andava con mamma. Tornava con valigioni pieni di libri, chili di guaranà e goyabada che distribuiva agli amici come fossero elisir di lunga vita, e buste di Garoto, dei cioccolatini brasiliani di cui andavamo letteralmente matti. E tante magliette con frasi di Amado, o pappagalli, o tramonti di Copacabana. 
 
Una volta con mamma gli facemmo una bella sorpresa. Lui era contrario agli animali in casa, ma dovette accettarli quando tornò dal Brasile e si ritrovò una bella cagnolina di nome Terry. Finì naturalmente che ci si affezionò moltissimo e, come spesso capita, alla fine fu lui a occuparsene più di tutti noi. 
 
Con Terry faceva delle lunghe passeggiate, spesso in cerca di funghi, a Marsia. Altra sua passione. Con mamma avevano preso un piccolo appartamento in montagna, vicino Roma. Lì abbiamo messo per la prima volta gli sci ai piedi, abbiamo imparato a camminare nei boschi, a perderci nelle vallate con le biciclette. Papà e mamma anche in vacanza non si fermavano mai. Hanno animato una grande attività di contrasto alla speculazione del consorzio che gestiva quella località. All’inizio li prendevano per matti. Si sono fatti molti nemici. Erano in pochi. Poi da quelle attività, giudiziarie, culturali, politiche, durate trent’anni, sono arrivati dei risultati e soprattutto sono nate delle grandissime amicizie, di quelle sincere e vere. 
 
Aveva una manualità minima. Quando si fulminava una lampadina, o si rompeva la cinghia di una serranda, era mamma che saliva sulla scala a sistemare le cose. Però si era ritagliato alcune mansioni casalinghe. Cucinava quasi sempre lui. Cose molto basilari. Pasta col sugo o coi piselli, fettine panate, frittata con le zucchine… Un’idea spartana di cucina, non molto apprezzata dai nostri amici che venivano a mangiare a casa, ma che ha garantito per tanti anni i nostri bisogni alimentari. Però da tempo aveva recuperato la macchina del gelato del suocero, una Simac d’annata, e si era specializzato in gelati fantastici e supergenuini per il piacere dei nipoti, dei figli, delle nuore e degli ospiti occasionali. 
 
Nel 2016, prossimo agli 80 anni, volle organizzare un viaggio in Brasile con gli uomini di famiglia. Noi tre figli e suo fratello Nicola. Nessuno di noi c’era mai stato. Una specie di viaggio-testamento, in 13 giorni ha provato a mostrarci la sua vita brasiliana, l’altra parte di papà che conoscevamo solo dai suoi racconti. Sono stati 13 giorni magnifici. Un ricordo indelebile, l’ultimo volta in cui noi fratelli ci siamo ritrovati a condividere una camera tutti e tre insieme, come da piccoli condividevamo la nostra cameretta. 
 
Papà ci teneva al rispetto. All’educazione. All’onestà. Credeva nello studio, anche nel sacrificio, come unica strada per ottenere dei risultati personali e collettivi. Disprezzava, ma senza enfasi, i furbetti, i malfattori, quelli che cercano la raccomandazione, che trovano il modo di non pagare le tasse, che superano le file e che pensano solo al proprio tornaconto personale. E non amava le parolacce. A casa non si potevano dire. 
 
Le sue imprecazioni tipiche erano due: la prima era "Santafé de Bogota!". Non ci sembrava una parolaccia, ma tono e momento non lasciavano dubbi all'interpretazione. L’altra, in dialetto sangiovannaro, quando sbagliava qualcosa, era “freghete Giuvà!”.
 
Citava Sant’Agostino facendo il sugo oppure ti parlava della dittatura di Salazar stendendo i panni, o ti raccontava il suo prossimo progetto di libro, sempre l’ultimo, mentre innaffiava l’orto. Amava il suo orto, lo riconnetteva credo con le sue origini. Era fiero dei suoi pomodori, delle sue zucchine, dell’insalata raccolta e portata in tavola. Non era proprio il suo mestiere, ma chiedeva consigli a suo fratello Nicola e a suo cognato Peppino di San Giovanni Rotondo, che lo aiutavano, trattandolo giustamente come un principiante di città. 
 
Un' amica di famiglia, Giulia, ci ha scritto che papà per lei era un uomo poetico e pratico, un uomo di mondo e di casa. 
 
Ha affrontato anche gli ultimi anni, così tragici per lui, per mamma e per tutti noi, con compostezza. Con una grande forza interiore. Col sorriso. Riservando il dolore ai suoi momenti intimi. Amando fortissimamente i suoi nipoti e dando tutto quello che poteva dare all’ultimo nato, Giacomino. 
 
Quindici anni fa papà ha avuto il suo primo tumore. Cominciò in quel momento a familiarizzare con l’ipotesi concreta della morte. Un momento duro per lui e per tutti noi. Da quella volta sembrava vivere ogni giorno come un regalo.

In quel periodo fece anche un sogno, che ha raccontato in alcune memorie scritte su sollecitazione di Paolo: 
 
“Sogno di trovarmi nel Parco del papa, a S. Giovanni Rotondo, quello costruito per la visita di Giovanni Paolo II. È grande, è verde. Entro e vedo Dante Alighieri, pensoso, con la corona di alloro, la penna d’oca e la Divina Commedia in mano. Più avanti, a destra, Socrate e Platone che discutono tra di loro. Poi, in fondo al Parco, là sul palco, l’orchestra di Santa Cecilia, aspettando il maestro per iniziare il concerto. “Se è così, mi dico…” e mi addormento, sereno. 

Ci mancherà. Ma quello che ci lascia, con le sue parole e con il suo esempio, è abbastanza per provare anche noi ad affrontare la vita a testa alta, con la schiena dritta. Con onestà e rigore.  Ma anche con gentilezza, semplicità, allegria e fiducia. 

Grazie papà. 

Michele e Luca, con Paolo

Questo testo è stato letto il 25 agosto 2023 nella Chiesa di Santa Maria del Carmine e San Giuseppe – Roma – durante le esequie del professor Giovanni Ricciardi
 
-------------------------------------------------------------------------------


TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

Obrigado, papai: homenagem a Giovanni Ricciardi
por
Michele Ricciardi, Luca Ricciardi com Paolo Ricciardi


                                                               
                                                 

Muitos disseram e escreveram nos últimos dias que o pai deixou uma marca importante nos estudos da literatura brasileira e portuguesa, com textos que ainda são lidos, e fazendo um trabalho de vida inteira entrevistando centenas de autores do país que tanto amou. Na verdade, desde que nos lembramos dele, papai sempre mexeu em seus gravadores e em suas preciosas fitas cassete, onde gravava as muitas conversas coletadas durante suas viagens ao Brasil, que depois transcrevia, trabalhava novamente e publicava, numa tentativa incessante de construir uma metodologia de pesquisa que ele chamou de sociologia do autor ou sociologia da literatura.
Sabíamos e não sabíamos o que ele estava fazendo. Por um lado porque nenhum dos filhos aprendeu português, por outro porque os sucessos de um pai não podem ser levados muito a sério na família, caso contrário corre-se o risco de sentir o peso dos sucessos de um pai.
Portanto, não podemos fazer uma biografia profissional do pai. Outros serão capazes de faze-la.  Mas existe uma biografia possível, não oficial, que talvez só nós, desde crianças, conheçamos.
 
Papai nasceu em San Giovanni Rotondo, no Gargano, pouco antes da guerra. Nosso avô enviado para a guerra, recusou-se a submeter-se ao comando dos alemães após o armistício, e da Grécia o enviaram para um campo de prisioneiros na Alemanha. Por isso, ele recebeu a Medalha de Voluntário pela Liberdade. Papai estava orgulhoso disso. Depois o avô trabalhou na mina, como vigia e no campo. No entanto, em casa, minha avó fazia meias de lã no tear e criava os três filhos.
 
Reza a lenda da família que Nannino, como era chamado nosso pai, foi tocado pelo Padre Pio, que também disse algo tipo “Deixem Nannino estudar”. Com 10 anos de idade foi enviado para um colégio de Salesianos. E permaneceu là com eles até o final do ensino médio clássico. Ele voltava para casa às vezes durante as férias. Daí a sua atitude monástica e austera, a sua capacidade de recolhimento e a palavra típica que sempre nos repetia quando éramos meninos: “temperança”. Uma espécie de resposta a cada pedido excessivo de nosotros crianças.
 
Depois foi para o Brasil como seminarista. Nós o provocamos discretamente sobre sua carreira como aspirante a padre, mas para papai a religião era assunto muito sério e ao mesmo tempo íntimo e pessoal. Ele nos disse: “Mesmo que vocês não acreditem em Deus, alguma vez váo para igreja. É uma forma de refletir, pensar, longe do caos”. E, para nos dar outro ponto de vista, falou-nos muitas vezes sobre a Teologia da libertação e a sua influência nos processos de mudança no continente latino-americano.
 
Viajou muitos anos pelo Brasil, sempre dormindo em pequenas pensões, vendedor de TV de porta em porta, editor de pequeno guia de TV, fazendeiro por um mês, vendedor de sapatos se necessário, e professor de francês.
 
Para nos dar a boa noite, nos contava contos de fadas: a Ilíada, a Eneida, a Odisséia, Orlando Furioso e os Promessos Noivos. Mas também A raposa e as uvas e suas invenções tipo o conto  Ciccio ricotta pastore e a Ochina. Depois, algumas das suas aventuras: a de uma partida de pólo aquático disputada em um rio amazônico entre ele e seu sócio, cada um acompanhado de seu próprio cavalo, que defendia chutes a gol com suas longas pernas. Acreditámos nisso durante muitos anos. E depois o de um ataque sofrido por uma onça, que lhe deixou um grande ferimento no abdômen. Ele orgulhosamente a mostrava aos netos - mas na verdade era uma cicatriz de uma cirurgia.
Outra história pertence a uma de suas muitas viagens de carona. De Barcelona a Lisboa foi atacado, amarrado e roubado por dois estudantes holandeses que lhe deram boleia. Na mochila trazia o manuscrito ainda incompleto da biografia de Soeiro Pereira Gomes. Os dois tiraram tudo dele, mas o manuscrito lhe foi devolvido com deferência. Deixaram-no ali, amarrado, no campo, longe da estrada principal. Ele conseguiu quebrar as cordas que prendiam seus pulsos esfregando-as em uma pedra. Depois ele caminhou até o primeiro bar da rua. Explicou o que tinha acontecido com ele. Chamou a polícia. Ele pegou um cartão postal, carimbou e mandou para casa. Apenas nos escreve: “A viagem continua lindamente. Saudações e beijos".
Em Roma, o pai conheceu a nossa mãe, no grupo de sociologia de Ferrarotti que ambos freqüentavam na época.
 
Ambos ensinam e para eles a escola é o centro pulsante de uma renovação democrática da sociedade. Papai, em particular, ficou muito orgulhoso por uma pesquisa sobre o trabalho infantil no bairro, que ele fez com seus alunos do biênio  do instituto Volta, aqui em Bravetta. Um belo trabalho cheio de dados e estatísticos. Mas preferimos folhear outro trabalho: uma reportagem fotográfica sobre a vida de um jovem casal, feita com seus alunos e feita dentro de nossa casa. Adoramos ver aquelas crianças vestidas de adultos fotografadas, anos atrás, nos quartos onde morávamos, com papel de parede velho e móveis que haviam sumido.
 
Depois o papai ficou muito orgulhoso de uma linda antologia para o biênio. Também este foi um texto para uma escola utópica que, através da literatura, formava o cidadão e a consciência civil. Lá dentro também havia algumas fotos nossas que fomos procurar no livro junto com a dedicatória.
 
Desses anos recordamos também as longas sessões de trabalho dedicadas aos manuais escolares, com a mãe, com Lia, Gemma e Giulia. Depois as festas com os amigos, o pai ao piano, o Alberto ao violino, as cachaças e feijoadas com Marilda e Teresa Pinto, e os muitos escritores e estudiosos brasileiros e portugueses que dormiam no sofá do escritório, e que o pai levava para visitar Roma.
 
Papai era rigoroso. Mas autoritário. Quando nos repreendia, ele baixava o tom da voz. E nós já estávamos tremendo. Era muito raro ele gritar.
 
Ele ia para Bari para lecionar na universidade. Pegava o ônibus para ir à estação de trens de manhã cedo. Voltava alguns dias depois, tarde da noite, sempre de ônibus. Quando ele chegava, sentava-se cansado no sofá. E depois havia o ritual: alguns de nós tirávamos os chinelos do banheiro e os levávamos até ele, enquanto ele desamarrava os cadarços dos sapatos.
 
Ele nunca pegou um táxi. Assim como quase nunca ia para restaurantes, o que considerava uma forma de luxo. Mesmo nos últimos anos, ele usou o ônibus com freqüência. Ele preferia isso ao carro. Um dos poucos habitantes de Roma que nunca ouvi reclamar do transporte público.
 
Muitas vezes ele viajava para ir ao Brasil e lá permanecia por muito tempo. Às vezes, um mês inteiro. Às vezes sozinho. Nas viagens mais curtas, ele ia com a nossa mãe. Voltava com malas cheias de livros, quilos de guaraná e goiabada que distribuía aos amigos como se fossem elixires da vida, e Garoto, os chocolates brasileiros pelos quais enlouquecíamos literalmente. E muitas camisetas com frases do Jorge Amado, ou papagaios, ou pôr do sol de Copacabana.
 
Uma vez com mamãe fizemos uma bela surpresa para ele. Ele era contra animais de estimação em casa, mas teve que aceitá-los quando voltou do Brasil, quando encontrou um lindo cachorro chamado Terry. Naturalmente, acabou gostando muito dele e, como sempre acontece, no final foi ele quem cuidou dele mais do que todos nós.
 
Com Terry fazíamos longas caminhadas, muitas vezes à procura de cogumelos, em Marsia. Sua outra paixão. Com a mãe, alugaram um pequeno apartamento nas montanhas, perto de Roma. Lá calçamos esquis pela primeira vez, aprendemos a caminhar no mato, a nos perder nos vales de bicicleta. Papai e mamãe nunca paravam, nem nas férias. Animaram uma grande atividade para contrariar a especulação do consórcio que administrava aquela localidade. No começo muitos  pensavam que estivessem loucos e fizeram muitos inimigos. E eles eram poucos. Apesar disso, depois daquelas atividades judiciais, culturais, políticas, que duraram trinta anos, chegaram resultados, e sobretudo nasceram grandes amizades, sinceras e verdadeiras.
 
Ele tinha destreza mínima. Quando uma lâmpada se apagava ou a correia de uma veneziana quebrava, era minha mãe quem subia a escada para consertar as coisas. Mas ele havia planejado algumas tarefas domésticas. Ele quase sempre cozinhava. Coisas muito básicas. Massa com molho ou com ervilhas, rodelas empanadas, omelete com abobrinhas… Uma ideia de cozinha espartana, pouco apreciada pelos nossos amigos que vinham comer em casa, mas que há muitos anos garante as nossas necessidades alimentares. No entanto, há algum tempo, recuperou a máquina de gelados do sogro, uma Simac vintage, e especializou-se em sorvetes fantásticos e supergenuínos para a alegria dos netos, filhos, noras e convidados ocasionais. .
 
Em 2016, perto dos 80 anos, quis organizar uma viagem ao Brasil com os homens da família. Nós três filhos e seu irmão Nicola. Nenhum de nós jamais esteve lá. Foi uma espécie de viagem-testamento, em 13 dias ele tentou nos mostrar sua vida brasileira, o outro lado do pai que só conhecíamos pelas suas histórias. Foram 13 dias maravilhosos. Uma lembrança indelével, a última vez em que nós irmãos nos encontramos dividindo um quarto, como dividíamos nosso quarto quando crianças.
 
Papai gostava de respeito. De educação. De honestidade. Acreditava no estudo, mesmo no sacrifício, como única forma para obter resultados pessoais e coletivos. Desprezou, mas sem ênfase, os espertinhos, os criminosos, aqueles que buscam recomendações, que encontram uma forma de não pagar impostos, que passam a fila e que pensam apenas no ganho pessoal. E ele não gostava de palavrões. Em casa não se podiam pronunciar.
 
Suas maldições típicas eram duas: a primeira era “Santafé de Bogotá!”. Não nos pareceu um palavrão, mas o tom e o ímpeto não deixaram dúvidas para a interpretação. A outra, no dialeto Sangiovannaro, quando algo estava errado, era “freghete Giuvà!”.
 
Citava Santo Agostinho enquanto fazia o molho, ou falava da ditadura de Salazar enquanto pendurava a roupa, ou te contava do seu próximo projeto de livro, sempre o mais recente, enquanto regava o jardim. Ele adorava o seu jardim, acho que o conectava com as suas origens. Ele tinha orgulho dos tomates, das abobrinhas, da salada que colhia e trazia para a mesa. Não era propriamente sua função, mas pedia conselhos ao irmão Nicola e ao cunhado Peppino de San Giovanni Rotondo, que o ajudavam, tratando-o com razão, como noviço da cidade.
 
Uma amiga da família, Giulia, escreveu-nos que o pai era para ela um homem poético e prático, um homem do mundo e da casa.
 
Ele também enfrentou com serenidade os últimos anos, tão trágicos para ele, para a mãe e para todos nós. Com muita força interior. Com um sorriso. Reservando a dor para seus momentos íntimos. Amando muito os netos e dando tudo o que podia ao último neto, Giacomino.
 
Há 15 anos, meu pai teve seu primeiro câncer. Naquele momento ele começou a se familiarizar com a hipótese concreta da morte. Um momento difícil para ele e para todos nós. A partir daí, ele parecia viver cada dia como uma dádiva.
Nesse período ele também teve um sonho, que relatou em algumas memórias escritas a pedido de nosso irmão Paulo:
 
“Sonho de estar no Parque do Papa, em S. Giovanni Rotondo, aquele construído para a visita de João Paulo II. É grande, é verde. Entro e vejo Dante Alighieri, pensativo, com uma coroa de louros, uma caneta e a Divina Comédia na mão. Mais adiante, à direita, Sócrates e Platão discutindo entre si. Depois, no final do parque, lá no palco, a orquestra de Santa Cecília, aguardando o maestro para iniciar o concerto. “Se for assim, digo a mim mesmo...” e adormeço sereno.

Sentiremos falta dele. Mas o que ele nos deixa, com as suas palavras e o seu exemplo, é suficiente para tentarmos enfrentar a vida de cabeça erguida, com as costas direitas. Com honestidade e rigor. Mas também com gentileza, simplicidade, alegria e confiança.

Obrigado pai.

Michele e Luca, com Paolo

Esse texto foi lido no dia 25 de agosto de 2023 na igreja de Santa Maria del Carmine e San Giuseppe - Roma - durante o funeral do professor Giovanni Ricciardi